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Come trasportare correttamente le biciclette?

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A proposito dell’utilizzo dei dispositivi portabici e targa ripetitrice, quali sono le conseguenze amministrative, civili e penali per eventuali violazioni?

Le biciclette possono essere trasportate sul tetto o sul retro dell’automobile o autocaravan con dispositivi omologati e che rispettino determinati limiti di sagoma e di portata, a patto che non venga compromessa la visibilità del conducente e della targa, e che i dispositivi di illuminazione siano ben visibili.
Si può ritenere che l’utilizzo dei portabici per auto siano equiparati ai portapacchi, così come i portasci. Sono considerati accessori leggeri e amovibili, che non modificano in modo significativo la massa a vuoto del veicolo. Non costituiscono, dunque, modifica della carrozzeria e della meccanica dell’automobile e quindi non è necessario effettuare alcuna variazione nella carta di circolazione.
Il decreto del ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (allora MIT) del 30 dicembre 2019 ha determinato le caratteristiche e le modalità di installazione delle strutture portasci, portabiciclette o portabagagli, applicate a sbalzo posteriormente o, per le sole strutture portabiciclette, anche anteriormente, sugli autobus da noleggio, di gran turismo e di linea, di categoria M2 ed M3. Per i veicoli M1 non sono stati emanati decreti o specifiche direttive, ma solo alcune circolari tra le quali quelle sopra citate.
Mentre il ministero si era già espresso in senso negativo quanto alla targa ripetitrice per i veicoli M1 nel caso di installazione di portabiciclette, il decreto, per i veicoli M2 e M3, ha espressamente previsto che “in caso di ostruzione anche parziale della targa, al fine di consentire l’utilizzo della struttura portabiciclette, si dispone l’impiego della targa ripetitrice di cui all’art. 100 del Codice della strada con le modalità previste per il carrello appendice”. Ha disposto, inoltre, che “la struttura posteriore e il relativo carico, se non è necessario ripetere la targa posteriore e le luci, sono da ritenersi assimilate al carico sporgente e, pertanto, dovranno essere indicate con apposito segnale di cui all’art. 164 comma 6 del Codice della strada e all’articolo 361 del Regolamento di esecuzione”. Quindi, appare chiaro che tale indicazione valga anche per i veicoli M1 e che, una volta caricate le biciclette, si debba rispettare il disposto dell’articolo 164, anche relativamente al comma 6, in quanto carico sporgente oltre la sagoma del veicolo.
Secondo le indicazioni del ministero, l’installazione dei dispositivi in esame sui veicoli classificati M1 è ritenuta non soggetta ad alcune formalità in quanto tali strutture, una volta installate, si devono intendere come facenti parte del veicolo stesso e non come un carico. In tal senso, non si ritiene applicabile l’articolo 164 se la struttura non è stata caricata, fermo restando il principio generale dell’articolo 140 del Codice della strada, la cui inosservanza, anche senza che siano applicabili sanzioni amministrative, è sufficiente a radicare la responsabilità penale e civile in caso di danni ascrivibili imprudenza e negligenza (se tali condizioni si ravvisano nell’aver circolato con la struttura aperta e non segnalata, ancorché in assenza di una specifica disposizione).

Una semplice somma algebrica
Tali conclusioni si possono adottare anche per il gancio di traino amovibile, la cui rimozione nel caso di inutilizzo non è prevista da norme positive e, anche ove fosse prevista come prescrizione riportata sulla carta di circolazione, la sua inosservanza non darebbe luogo a una specifica sanzione, salvo che la rimozione sia preordinata a evitare il parziale occultamento della targa, situazione nella quale troverebbe applicazione l’articolo 102, comma 7.
Sulle modalità di carico si precisa che questo può sporgere posteriormente fino ai 3/10 della lunghezza del veicolo stesso. Se, ad esempio, una autovettura è lunga 3,6 metri, macchina e sporgenza del carico devono avere una lunghezza totale di 4,68 metri, ovvero la parte sporgente del carico non deve superare 1,08 metri.
Per quanto concerne la larghezza, la bicicletta può sporgere al massimo di 30 cm per lato, misurando dalle luci di posizione anteriori o posteriori, ma deve essere sempre garantita la visibilità delle medesime luci. Quindi se, ad esempio, l’autovettura è larga 180 cm, la larghezza massima è di 180+30+30 = 240 cm.
Nel caso in cui un portabici sia stato montato sul tetto, si ricorda che l’altezza massima consentita dal Codice della strada per qualsiasi autoveicolo è di 4 metri senza possibilità di alcuna tolleranza.
Qualora non siano rispettate tali disposizioni, il responsabile va a incorrere nella sanzione di cui all’art. 61 del Codice della strada per superamento dei limiti di sagoma.

Portabici senza… bici
È consentito circolare con il portabici non caricato in quanto non esistono disposizioni normative o ministeriali che lo impediscano. Non esistendo direttive del ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili e della Direzione generale per la motorizzazione, dovrebbe valere la prassi che consente la circolazione con il portabici montato, ancorché non utilizzato.
La circolare Prot. n. 1906/4120 del 6 maggio 1999, già citata, ha ribadito che portabiciclette e portasci, trattandosi di accessori leggeri e amovibili, possono essere applicati sulle autovetture e autocaravan senza incorrere nella violazione dell’articolo 78 del Codice della strada e pertanto – come già evidenziato – non è necessario procedere alla loro annotazione sulla carta di circolazione del veicolo.
Non è ammessa, ovviamente, la copertura della targa. Trattandosi pur sempre di sistemazione del carico, deve avvenire nel rispetto dell’articolo 164, nella parte in cui prescrive che il carico dei veicoli deve essere sistemato in modo“da evitare la caduta o la dispersione dello stesso; da non diminuire la visibilità al conducente né impedirgli la libertà dei movimenti nella guida; da non compromettere la stabilità del veicolo; da non mascherare dispositivi di illuminazione e di segnalazione visiva né le targhe di riconoscimento e i segnali fatti col braccio”.
Sullo stesso piano interpretativo si era posto il ministero nella circolare del 1998 già citata, disponendo che incombe sul conducente la corretta sistemazione del carico, ai sensi dell’art. 164 del Codice della strada. In particolare, raccomanda l’esigenza di assicurare la completa visibilità dei dispositivi di illuminazione e di segnalazione visiva, e della targa. La targa ripetitrice è, invece, ammessa nel caso di agganciamento di rimorchi, compresi i carrelli appendice.
La maggior parte dei modelli commercializzati in Italia è realizzata in modo da non occultare le targhe e i dispositivi di illuminazione dei veicoli. Ne esistono, tuttavia, alcuni che non rispettano la disposizione. Per questo le case costruttrici vendono strutture per la collocazione della targa, con luci supplementari che, a parere di chi scrive, non sono utilizzabili in Italia, almeno secondo le norme vigenti e salvo un diverso indirizzo ministeriale. Si conferma, pertanto, quanto riportato dall’art. 100 comma 4 del Codice della strada, che prevede la possibilità di utilizzare la targa ripetitrice “esclusivamente nel caso di carrelli appendice”, anche se parte della dottrina sostiene che se le strutture portabici hanno avuto l’omologazione del “vano targa”, sia possibile staccare la targa dal veicolo per collocarla in tale “vano” per consentire la visibilità della stessa.
Tale ultima ipotesi lascia, comunque, alquanto perplessi circa la fattibilità e la legittimità operativa.
Quindi, secondo le indicazioni ministeriali, i portabiciclette sono consentiti e di conseguenza pare ovvio che il trasporto dei velocipedi su tali strutture sia da ritenersi consentito, in deroga all’articolo 164 del Codice della strada circa le sporgenze che, si ricorda, sarebbero consentite solo per cose indivisibili, mentre è evidente che un carico di più biciclette costituisca carico divisibile.
Luci e targa ben visibili
Oltre al rispetto delle prescrizioni sulla sistemazione del carico di cui all’articolo 164 del Codice della strada (vedi box “Corretta installazione), il conducente del veicolo dovrà assicurare la completa visibilità dei dispositivi di illuminazione e di segnalazione visiva, nonché della targa. La superficie esterna delle strutture non deve presentare parti orientate verso l’esterno suscettibili di agganciare pedoni, ciclisti o motociclisti (si veda la circolare del ministero dei Trasporti e della navigazione prot. n. 2522/4332 sopra citata). Il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti con nota prot. n. 5887 – 5990 DIV 3 B del 3 marzo 2016 ha precisato: “In merito a quanto rappresentato circa l’installazione di portabiciclette a sbalzo si conferma che tale operazione è consentita nel rispetto delle circolari ministeriali del 21 novembre 1998 e del 6 maggio 1999. In particolare, devono essere soddisfatte le condizioni di una corretta installazione delle strutture di sostegno della bicicletta e il mantenimento della visibilità dei dispositivi di illuminazione e segnalazione visiva a luce propria e riflessa nonché la visibilità della targa. Si conferma, altresì, quanto riportato dall’art. 100 comma 4 del Codice della strada che prevede la possibilità di utilizzare la targa ripetitrice esclusivamente nel caso di carrelli appendice”.

Quali sanzioni
Da un punto di vista amministrativo la violazione di una qualsiasi delle prescrizioni comporta una sanzione amministrativa nella forbice di un minimo di 85 euro a un massimo di 338 euro, nonché il ritiro immediato della carta di circolazione e della patente di guida che deve essere annotata nel verbale di contestazione (art. 164 del Codice della strada). Se il carico può essere sistemato al momento, l’accertatore provvede alla restituzione dei documenti, annotando il tutto sul verbale di contestazione. Se, invece, dovesse essere necessario spostare il veicolo per provvedere alla sistemazione del carico, il conducente deve richiedere la restituzione dei documenti ritirati al Comando da cui dipende l’organo accertatore. Come conseguenza della violazione delle prescrizioni relative alla sistemazione dei carichi sporgenti è, inoltre, prevista la decurtazione di 3 punti dalla patente di guida. Qualora la struttura apposta non rendesse visibile la targa del veicolo, troverebbero applicazione anche la sanzione prevista dall’art. 100 del Codice della strada.

Danni in materia civile
Dal punto di vista civilistico in materia di danno derivante dalla perdita del carico o di accessori da un veicolo nell’ambito della circolazione stradale, va precisato come l’orientamento giurisprudenziale maggioritario si è mostrato incline a riconoscere, a carico di un soggetto, la risarcibilità del danno stesso (essenzialmente) ai sensi dell’art. 2043 in combinato all’art. 2053 del Codice civile, ove dipeso anche da un “pericolo occulto” (insidia o trabocchetto). Per molti anni l’orientamento predominante della giurisprudenza è rimasto ancorato ai concetti di “insidia e trabocchetto” in rapporto all’art. 2043 del Codice civile, quale figura sintomatica dell’attività colposa, ricorrente in presenza di due presupposti congiunti: l’elemento oggettivo della non visibilità del pericolo e l’elemento soggettivo della non prevedibilità dello stesso, secondo le regole della comune diligenza. Pertanto, appare evidente come la perdita improvvisa o non di un portabiciclette, della bicicletta o di entrambi sulla strada, possano creare una situazione di “insidia” per la circolazione e determinare un evento incidentale con un “nesso eziologico” diretto tra la causa e l’incidente stesso, con eventuale obbligo di risarcimento a carico del responsabile. Ad esempio, a seguito della perdita su strada del portabiciclette un’autovettura sbanda e finisce fuori strada, con danni alla medesima e al conducente.

Se la responsabilità è penale
Passando dal punto di vista civilistico a quello penalistico, se rapportiamo la condizione suesposta con quanto espressamente previsto anche dalla legge n. 41/2016 – che ha stabilito con l’art. 589 bis in materia di “omicidio stradale” che “chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da due a sette anni” – può essere interessante far notare come la formula “violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale”, fatta propria dalla predetta disposizione codicistica, sia altresì presente nell’art. 590-bis c.p. relativamente al reato di lesioni personali stradali gravi o gravissime: “Chiunque cagioni per colpa ad altri una lesione personale con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da tre mesi a un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime”. Ovviamente ai fini del riconoscimento di una eventuale responsabilità penale deve sussistere la medesima condizione di “nesso eziologico” tra la perdita del carico e il sinistro stradale richiamata precedentemente per la responsabilità civile.

Pulizie di primavera, a cosa stare attenti?

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Quali sono i punti di interesse per gli addetti ai controlli in relazione alla gestione degli sfalci e delle potature derivanti da parchi e giardini pubblici e privati?

Con l’arrivo ormai imminente della bella stagione si presentano, puntuali come sempre, i problemi legati alla gestione dei residui vegetali prodotti dalle attività di manutenzione dei parchi e dei giardini sia pubblici che privati. Argomento tutt’altro che semplice da analizzare, più volte modificato dal nostro legislatore.
Con la pubblicazione del D.lgs. 116 del 3 settembre 2020, è entrata definitivamente in vigore la cosiddetta “Circular Economy”. Il provvedimento ha dato attuazione alle direttive europee 2018/851 e 2018/852, che hanno modificato le direttive 2008/98/CE relativa ai rifiuti e 1994/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio 20G00135. Dall’analisi delle disposizioni ritoccate o introdotte ex novo, si distingue, per l’importante ricaduta sui controlli e in generale sulla gestione dei rifiuti da parte dei Comuni, la rimodulata questione riguardante anche sfalci e potature dei giardini pubblici. La modifica normativa, di fatto, sancisce l’impossibilità di trattare i residui della lavorazione del verde pubblico in deroga dal Codice dell’ambiente, considerandoli a tutti gli effetti rifiuti.

Combustione controllata dei residui vegetali agricoli
Alla luce della normativa vigente, a partire dal 26 settembre 2020, non costituiscono rifiuti soltanto quelli (sfalci e potature) agricoli e che derivano da buone pratiche colturali, costituiti da paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso, sempreché siano riutilizzati in agricoltura e in silvicoltura o per la produzione di energia da biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi. La norma precisa, quindi, che l’impiego dei materiali deve avvenire in processi che non arrecano danno all’ambiente o mettono in pericolo la salute umana.
La combustione dei materiali vegetali è regolamentata dal Decreto legislativo del 3 aprile 2006, n. 152 (“Codice Ambiente”), che ne rende possibile la pratica solo a determinate condizioni e nel rispetto di precise quantità. L’art. 182 comma 6-bis del D.lgs. 152/2006, sancisce infatti che: “Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili”.
A tal proposito, si ritiene utile evidenziare che pacificamente in giurisprudenza è sostenuto che “In tema di gestione dei rifiuti, l’incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di fuori delle condizioni previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all’art. 256, comma primo, lett. a), D.lgs. 3 aprile 2006 n. 152”.

Sfalci e potature come sottoprodotti
Laddove non ricorrano le condizioni previste per l’applicazione dell’esclusione di cui all’articolo 185, ad esempio in considerazione dell’impiego dei materiali indicati in processi diversi da quelli elencati, potrebbe essere possibile qualificare comunque il residuo come sottoprodotto, dimostrando, però, la sussistenza delle condizioni previste dall’articolo 184-bis del Decreto legislativo n.152/2006, vale a dire che:

a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;        

d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.


Bisogna ammettere che il nuovo assetto normativo ha sollevato diversi dubbi interpretativi circa la possibilità di reimpiegare gli sfalci e le potature secondo i principi dell’economia circolare prima di trattarli come rifiuti.
Le Regioni Lombardia e Marche, con due distinte note ufficiali pubblicate, hanno voluto fornire chiarimenti in relazione alle modalità d’impiego di sfalci e ramaglie quando prodotti dall’attività di un agricoltore-florovivaista o da un florovivaista non agricoltore/manutentore del verde.
Riteniamo doveroso riportare le seguenti linee guida, così come emergono dalle citate note regionali:

  • quando il soggetto che effettua l’attività di cura del verde è un agricoltore-florovivaista che raccoglie i residui di lavorazione (come sfalci d’erba e ramaglie) e li riutilizza presso la propria azienda nel ciclo agricolo o per la produzione di biogas, l’attività non viene considerata come una produzione di rifiuto ma come la gestione di materia nello stesso ciclo produttivo;
  • quando il soggetto che effettua l’attività di cura del verde è un florovivaista non agricoltore che raccoglie i residui di lavorazione e li riutilizza presso la propria azienda solo come ammendanti, secondo le condizioni fissate dal D.lgs. n. 75 del 2010 in materia di fertilizzanti che, all’allegato II prevede, ad esempio, l’impiego del compostato per la produzione di ammendanti verdi o misti. l’attività non viene considerata come produzione di rifiuto ma come la gestione di materia nello stesso ciclo produttivo;
  • se il soggetto che effettua l’attività di cura del verde porta i residui di lavorazione a un agricoltore terzo che li inserisce nel ciclo agronomico per la produzione di biogas o per la produzione di materia che usa nella sua attività agricola chiudendo il ciclo del sottoprodotto, il materiale, non configurandosi in partenza come rifiuto, non soggiace alla gestione rifiuti (iscrizione al registro, uso del formulario) ma rientra nella gestione di un sottoprodotto. Il documento di trasporto è il DDS accompagnato dal contratto che identifichi il destinatario e indichi il corretto trattamento (compostaggio) e/o l’utilizzo agronomico;
  • l’imprenditore artigiano può destinare sfalci e potature alla produzione di energia, secondo le disposizioni di cui al Decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264, “Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”.

In sostanza, i residui di lavorazione del verde pubblico o privato possono essere destinati a un utilizzo agricolo purché vi sia adeguata tracciabilità tra il punto di produzione (cioè il punto in cui si svolge il processo produttivo primario da cui si originano i residui della produzione) e il luogo di destinazione nel quale si realizzi un reale utilizzo agronomicamente corretto e riconducibile a una buona pratica agricola. Non sono previsti adempimenti amministrativi per l’imprenditore agricolo che produce “non rifiuti”.

Sfalci e potature come rifiuti urbani e speciali
Alla luce del quadro normativo attuale, gli sfalci e le potature derivanti dalla manutenzione del verde pubblico dei Comuni e dei privati non rientrano più tra le esclusioni previste dall’art. 185. Restano esclusi da tale disciplina solo gli sfalci e le potature derivanti dall’attività propriamente agricola nell’ambito delle buone pratiche colturali, utilizzati in agricoltura. Qualora non ricorrano le condizioni previste dal 184-bis, essi devono essere gestiti come rifiuti.Se è pacifico definire in modo generale rifiuti i residui vegetali derivanti dalla cura del verde dei giardini pubblici e privati, non è altrettanto semplice procedere alla loro corretta classificazione. Vediamo pertanto come bisogna agire nei diversi casi a seconda dell’attività di provenienza.

>> A. Rifiuti di aree verdi pubbliche (urbani): in base all’art. 183 co. 1 lettera b-ter) punto 5), rientrano in questa classificazione i soli rifiuti derivanti dalla manutenzione del verde pubblico, come anche ribadito dal MiTE con la circolare 51657/2021. Per il trasporto, se non effettuato direttamente dal Comune, è necessaria l’iscrizione nella categoria 1 dell’Albo Gestori Ambientali. A tal proposito, il comitato dell’Albo Nazionale Gestori Ambientali, con la circolare n. 1 del 14 febbraio 2023, ha voluto chiarire che, qualora l’attività di raccolta e trasporto di tali rifiuti, benché classificati come urbani, sia effettuata dallo stesso soggetto che ha l’appalto o la concessione per la manutenzione del verde, lo stesso è da considerarsi come produttore iniziale del rifiuto e pertanto potrà iscriversi in categoria 2-bis ai sensi dell’art. 212 comma 8 del D.lgs. 152/06. Tali rifiuti devono essere conferiti esclusivamente ad impianti autorizzati.

>> B. Rifiuti di aree verdi private (urbani): sono i rifiuti prodotti da privati cittadini nell’ambito di attività fai da te possono essere conferiti agli impianti pubblici (isole ecologiche e cc.) il trasporto da parte del privato cittadino è esente dall’obbligo di iscrizione all’Albo N.G. A. ed avviene senza formulario;

>> C. Rifiuti di aree verdi private (speciali): sono i residui vegetali prodotti a seguito di intervento manutentivo effettuato da giardiniere (un’impresa in attività artigianale). Per il trasporto di tale tipologia di rifiuti è necessaria l’iscrizione nella cat. 2-bis dell’Albo Gestori Ambientali (art. 212 co. 8) se l’impresa non è già iscritta nelle categorie 4 o 5. Conseguentemente alla non possibilità di classificazione come rifiuti urbani, il conferimento ai centri di raccolta comunali non è più possibile. In ogni caso rimane la possibilità, anche se classificati come speciali, di procedere tramite apposite convenzioni col gestore locale. Il trasporto presso impianti autorizzati dovrà avvenire mediante l’utilizzo del formulario.

Indipendentemente dalla loro classificazione come urbani o speciali, è possibile utilizzare il codice CER 20 02 01 per tutti i residui vegetali derivanti dalla cura di parchi e giardini non risultando utile nessuno degli altri codici previsti per i rifiuti speciali, tale assunto è pacificamente riscontrabile nella suddetta circolare MiTE.

Violazioni e sanzioni

Sono molteplici le sanzioni che potrebbero contraddistinguere le diverse violazioni in ambito alla gestione irregolare dei rifiuti vegetali provenienti dalla cura del verde sia di privati sia pubblici. Per ragioni espositive nel prontuario che segue “Gestione Rifiuti da sfalci e potature” indichiamo le principali casistiche che impegnano maggiormente gli organi di controllo.

A Napoli controlli della Polizia Locale nelle aree della movida

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Nell’ambito dei servizi predisposti dal Comando della Polizia Locale di Napoli nelle aree della movida serale, gli agenti delle Unità Operative territoriali hanno svolto una intensa attività di prevenzione.

Nel corso dei controlli di Polizia Amministrativa effettuati nei giorni scorsi in alcune aree della città, gli agenti – come reso noto dal Comune in una nota – hanno eseguito il sequestro preventivo di un locale che era stato precedentemente segnalato e verbalizzato per lavori abusivi svolti all’interno.

Un secondo locale “è stato sanzionato per occupazione di suolo pubblico in difformità ai titoli autorizzativi, mentre in zona Chiaia sono stati verbalizzati 4 locali per mancata scia per insegne, per la mancata e corretta raccolta dei rifiuti e per impatto acustico”.

Gli agenti sono stati anche impegnati sul fronte del Codice della strada. Hanno elevato in vari quartieri della città “30 P.V. per la mancata esibizione dei documenti di guida, per revisione scaduta, mancata copertura assicurativa, per guida senza patente”. Inoltre, “sono stati elevati 40 verbali per divieto di sosta e prelevate 4 autovetture”.

Pergolato e gazebo, quali differenze?

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In vista della bella stagione, bar e ristoranti, per incrementare il servizio, si preparano ad aumentare i posti a sedere con gazebo o pergolati. Quali sono le differenze?

Per aumentare il numero dei posti a sedere, ecco il via alle trovate più disparate. Il punto è che in alcuni casi per risolvere le problematiche legate ai permessi per la realizzazione di queste opere, si confonde spesso, o quasi sempre, volutamente o non, tra gazebo e pergolato.

Questa definizione resta molto importante non solo per gli uffici preposti a rilasciare i permessi, ma anche per gli organi di polizia giudiziaria che intervengono nei controlli. Vediamo di mettere un po’ di ordine, servendoci di una sentenza del T.A.R. Campania Sez. II. del 29-11-2021.

Più volte la giurisprudenza amministrativa, compreso il Consiglio di Stato, si è espressa in merito alle definizioni di tali opere, asserendo che il manufatto in tubolari in ferro è assolutamente assimilabile a un gazebo piuttosto che a un pergolato, consistendo in una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore e aperta ai lati, avente la funzione di garantire in modo permanente la migliore fruibilità di uno spazio aperto. Diversamente, il pergolato si configura come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o di altro materiale di minimo peso, aperto su almeno tre lati e nella parte superiore nonché facilmente amovibile in quanto privo fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.

Infatti, i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti (nello specifico connesse allo svolgimento dell’attività commerciale), vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico e conseguente necessità del previo rilascio del permesso di costruire, a nulla rilevando la precarietà strutturale dei manufatti, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere continuativo e non occasionale dell’attività svolta.

Non è da considerarsi opera precaria ai fini autorizzativi e dell’esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione, anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione: infatti, la precarietà non va confusa con la stagionalità, vale a dire con l’utilizzo annualmente ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma durature nel tempo.

Il gazebo non può essere qualificato come mera pertinenza del fabbricato in cui è svolta l’attività commerciale, configurandosi invece come manufatto autonomo, il quale, comportando una trasformazione del territorio, necessita del permesso di costruire.

Gli elementi che caratterizzano la pertinenza urbanistica sono, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio, e, dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra il manufatto e l’edificio principale, con la conseguente incapacità per il primo di essere utilizzato separatamente ed autonomamente rispetto al secondo. Pertanto, un’opera può definirsi accessoria nei riguardi di un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme.

Possiamo concludere che se i manufatti hanno le caratteristiche definite sopra, devono essere autorizzate con permesso di costruire per non incorrere nell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità delle stesse al previsto trattamento sanzionatorio.

Segnale sì, segnale no

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Warning street sign on road work site.

Apposizione di segnaletica priva di ordinanza istitutiva, facciamo chiarezza.

Il D.lgs. n. 285/1992 stabilisce le facoltà e i limiti dell’ente proprietario della strada nel regolamentare la circolazione stradale. I provvedimenti per la regolamentazione della circolazione, in particolare, sono emessi dagli enti proprietari attraverso gli organi competenti a norma degli articoli 6 e 7, con ordinanze motivate e rese note al pubblico mediante i prescritti segnali (articolo 5, comma 3, Codice della strada).

Nei centri abitati i Comuni, con ordinanza del sindaco, possono stabilire obblighi, divieti e limitazioni per ciascuna strada o tratto di essa, o per determinate categorie di utenti, in relazione alle esigenze della circolazione o alle caratteristiche strutturali delle strade (articolo 6, comma 4 lettera b) cui rinvia l’articolo 7, comma 1, lettera a) del Codice della strada.

Oltre alla specifica normativa del Cds, l’ente proprietario deve sempre rispettare i principi generali che governano tutta l’attività amministrativa. In particolare, i principi di pubblicità e trasparenza indicati nell’articolo 1 della legge 241/90 e i principi dell’ordinamento comunitario, anch’essi richiamati espressamente dall’articolo 1 della legge 241/90, tra i quali quelli di parità di trattamento e proporzionalità.

Per regolamentare la circolazione stradale, gli enti proprietari devono indicare i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che giustificano l’emanazione delle ordinanze (articolo 6 e Cds) in relazione alle risultanze dell’istruttoria, mettendo in evidenza il nesso causale che deve intercorrere tra le esigenze di carattere generale (previste dagli articoli 6 e 7) e il provvedimento in concreto adottato.

MOTIVAZIONI GENERICHE

Si è avuto modo di accertare che gli enti proprietari delle strade spesso motivano le ordinanze attraverso il generico richiamo alle “esigenze della circolazione” oppure alle “caratteristiche delle strade”. Tali indicazioni, anche alla luce delle disposizioni normative richiamate, non integrano la motivazione dell’ordinanza, bensì costituiscono una mera riproposizione di quanto enunciato nell’articolo 6 del Codice della strada.

Analogamente, non è sufficiente richiamare sic et simpliciter esigenze di “sicurezza” stradale o delle persone, ovvero esigenze di “fluidità della circolazione”, in quanto si tratta di principi e obiettivi previsti dall’articolo 1 del Codice della strada cui ogni ordinanza di regolamentazione della circolazione deve ispirarsi.

Viceversa, l’articolo 5 comma 3 del Cds, attraverso l’espressione “ordinanze motivate”, richiede che l’ente proprietario comprovi la sussistenza delle esigenze e dei presupposti (già previsti a livello normativo) attraverso documenti o analisi tecniche, che attestino e confermino indiscutibilmente la sussistenza delle ragioni alla base del provvedimento adottato. In mancanza, l’ordinanza di regolamentazione della circolazione potrebbe risultare illegittima per violazione di legge o eccesso di potere, riscontrandosi quantomeno un difetto di motivazione o di istruttoria.

CORRETTA PUBBLICITÀ

L’articolo 5, comma 3 del Cds stabilisce, inoltre, che le ordinanze di regolamentazione della circolazione devono essere “rese note al pubblico” mediante i prescritti segnali. A tal riguardo, sempre al fine di provvedere a un’adeguata informazione agli utenti della strada, si ricorda che l’articolo 32 della legge 69/2009 prevede che gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati.

Le ordinanze hanno essenzialmente lo scopo di legittimare la collocazione dei segnali e fissare i termini di decorrenza del provvedimento connesso, anche in funzione dell’articolo 37 del citato Codice che, al comma 3, prevede il ricorso contro i provvedimenti e le ordinanze che dispongono o autorizzano la collocazione di segnaletica entro un termine che decorre proprio dal provvedimento ovvero dalla collocazione della segnaletica.

Pur non costituendo la eventuale mancata apposizione degli estremi dell’ordinanza un presupposto idoneo a rendere la prescrizione inefficace, si è dell’avviso che l’esatto adempimento della norma sia un preciso dovere delle amministrazioni proprietarie di strade, anche al fine di evitare un inutile contenzioso, caso che si verifica con frequenza e che costituisce un indubbio spreco di tempo e di risorse delle Amministrazioni e degli enti pubblici obbligati.

Alla luce di quanto sopra, si può affermare come la segnaletica prescrittiva, oltre che essere inquadrabile formalmente come un manufatto, sotto il profilo giuridico non è altro che la manifestazione esterna dei contenuti sostanziali prescrittivi presenti nell’atto amministrativo – l’ordinanza – che ne giustificano e legittimano la sua apposizione. L’emanazione di un’Ordinanza di regolamentazione della circolazione stradale, difatti, se non è seguita dall’apposizione della segnaletica prevista, non potrà produrre alcun effetto e nessun obbligo da parte degli utenti della strada.

Appare chiaro, pertanto, come la medesima situazione di inefficacia giuridica si verificherebbe con la presenza della sola segnaletica in assenza dell’ordinanza istitutiva. Tale condizione comporta sicuramente effetti giuridici amministrativi, nella fattispecie l’annullamento della eventuale sanzione amministrativa comminata all’utente della strada in quanto andrebbe a prodursi una condizione contra legem, per illegittimità evidente della procedura sanzionatoria.

LA GIUSTA PROCEDURA

Ogni segnale prescrittivo deve, pertanto, essere sorretto da una preventiva ordinanza adottata, di norma in quanto provvedimento avente natura tecnica, dal vertice della struttura burocratica incaricata, con la conseguenza che:

  1. se manca l’ordinanza, ma è presente il segnale, non possono essere applicate sanzioni amministrative;
  2. l’osservanza del comportamento imposto dal segnale può comportare responsabilità penale a carico dell’ente proprietario, qualora la segnaletica apposta non prevista da apposito provvedimento amministrativo istitutivo ovvero non conforme al Regolamento del Codice della strada laddove determini l’integrazione, per esempio, del reato di lesioni colpose di cui agli articoli 590 e 590-bis c.p. o all’articolo 589-bis c.p., qualora acquisisca natura di insidia stradale;
  3.  se c’è l’ordinanza, ma manca il segnale, la pubblica amministrazione non può esigere il rispetto di alcun comportamento;
  4.  nessuna conseguenza comporta poi la mancanza sul retro dei segnali stradali apposti su strada della indicazione della ordinanza di adozione del divieto stesso (articolo 77 regolamento di esecuzione). Sul punto si è espresso più volte il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e anche la giurisprudenza di legittimità appare costante nel senso indicato.

Sul punto 2, è rinvenibile nella sentenza della Corte di Cassazione penale n. 23152/2012, favorevole a ritenere configurabile la predetta aggravante “non solo quando la violazione della normativa di riferimento è commessa da un utente della strada alla guida di un veicolo e nella fase della circolazione, bensì anche nel caso di violazione di qualsiasi norma che prevede a carico di un soggetto – pur non impegnato in concreto nella fase della ‘circolazione’ – un obbligo di garanzia finalizzato alla tutela della sicurezza degli utenti della strada”.

Può ora osservarsi che riferimenti espliciti al succitato “obbligo di garanzia” traspaiono dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione penale in termini di riconducibilità dello stesso non solo all’ente proprietario della strada ma, altresì, all’appaltatore di lavori di manutenzione della strada medesima.

Da ciò si deduce che in assenza dell’Ordinanza istitutiva della segnaletica apposta, non essendo riconducibile la responsabilità al firmatario della stessa, sarà responsabile il soggetto che ha appaltato i lavori di apposizione della medesima segnaletica con l’aggravante di aver commissionato l’appalto senza la documentazione necessaria (delibera o ordinanza comunale, determina dirigenziale ecc.).

A cura di Fabio Dimita
Funzionario direttivo MIT e collaboratore di PolMagazine

Sinistro stradale: non sempre il Comune è responsabile per la presenza di un’insidia

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Ci sono insidie e insidie, è proprio il caso di dire. Con una recente pronuncia della Cassazione è stata esclusa la responsabilità dell’Ente proprietario della strada, il Comune, per un sinistro provocato dalla presenza di un tombino aperto sulla carreggiata. Attenzione, però: nell’Ordinanza della Cassazione Civile, sezione III, n° 3739 del 12 ottobre 2022, depositata l’8 febbraio 2023, la responsabilità è stata esclusa per una ragione ben precisa e oggettivamente provata.


Esaminiamo il caso
Nel 2006 la compagnia assicurativa di un veicolo ha chiesto la ripetizione del risarcimento riconosciuto ai trasportati a seguito di un sinistro stradale avvenuto in fase di sorpasso. L’automobile aveva invaso la corsia opposta e aveva finito con l’imbattersi in un tombino aperto sulla carreggiata. In particolare, il veicolo, nel percorrere una strada a doppio senso di circolazione con presenza di doppia linea continua, aveva effettuato un sorpasso non consentito ad alta velocità, invadendo la corsia opposta. Qui, all’interno di un cantiere, c’era un tombino aperto, la cui presenza era segnalata solo per gli utenti provenienti dalla direzione opposta. Appena dopo il transito, il conducente ha perso il controllo del veicolo.

L’iter giudiziario
Il Tribunale di prime cure ha rigettato la richiesta sul presupposto che la condotta del conducente aveva interrotto il nesso causale tra la cosa in custodia, che aveva carattere inerte e il fatto generatore di danno, imputabile esclusivamente al comportamento incauto dell’automobilista/assicurato.
La compagnia assicurativa adiva la Corte di Appello di Brescia, deducendo che il sorpasso azzardato del conducente/assicurato integrasse il caso fortuito. Il giudice di secondo grado rigettava il gravame con sentenza n° 1907 del 10 dicembre 2018, rilevando che, per configurare la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c., sarebbe stato necessario provare la pericolosità della normale utilizzazione del bene, rimasta invero priva di adeguato riscontro, in quanto il cantiere era stato segnalato, in modo conforme all’art. 31 del Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice della strada (rubricato “Segnalamento e delimitazione dei cantieri”), nella corsia di percorrenza dei veicoli, mentre, nella stessa corsia ma direzione opposta di marcia tenuta dal conducente de quo, non vi era necessità della segnalazione dei lavori, in quanto il rispetto del divieto di sorpasso avrebbe da solo scongiurato il sinistro. Secondo il giudice di appello, dunque, la illegittima condotta del conducente ha avuto efficacia causale esclusiva nella produzione dell’evento, in quanto si è verificato un caso fortuito che ha reciso il rapporto causale tra la responsabilità del custode, ex art. 2051 cc., e la pericolosità del bene.

Terzo grado
La compagnia assicurativa ha, come detto, proposto ricorso per Cassazione con un unico motivo: la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione di norme di diritto, anche in relazione al principio informatore della circolazione stradale”, ex art. 140 del Codice della strada. Questo nella misura in cui la ricorrente censurava l’incongrua motivazione relativa all’interpretazione dell’art. 2051 c.c., in combinato disposto con il citato art. 140 del Codice della strada, per aver ritenuto che la condotta pericolosa del conducente/assicurato avesse avuto una incidenza causale autonoma e assorbente rispetto all’evento di danno così da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno.
Per tale motivo, la ricorrente riteneva che la Corte di merito avrebbe dovuto concludere, quantomeno, per la presenza di cause concorrenti nella produzione del danno, in assenza di prova, da parte dell’Ente proprietario della strada e delle ditte appaltatrici chiamate in causa, per non aver assolto, con diligenza, agli obblighi di organizzazione dell’attività di sorveglianza del cantiere al fine di garantire la sicurezza dell’uso della strada, comprese le opportune e necessarie segnalazioni sulla presenza di un tombino aperto sulla pavimentazione stradale.

Questione di comportamento
La Sacra Corte non ha accolto il ricorso per una serie di ragionamenti.
Gli Ermellini hanno ritenuto che a integrare la responsabilità sia necessario e sufficiente che il danno sia stato “cagionato” dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla cosa. Il danneggiato, dunque, ha il solo onere di provare l’esistenza di un idoneo nesso causale tra la cosa e il danno, mentre al custode spetta di provare che il danno non sia stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito nel cui ambito sono compresi, oltre al fatto naturale, anche quello del terzo e dello stesso danneggiato.
Si tratta, dunque, di una responsabilità oggettiva con possibilità di prova liberatoria, nel cui ambito il caso fortuito interviene come elemento idoneo a elidere il nesso causale altrimenti esistente tra la cosa e il danno.

C’è un che di imprevedibile
Nel caso di specie non poteva addossarsi al custode l’obbligo di prevedere l’altrui comportamento imprudente e contrario alle disposizioni del Codice della strada, costituendo esso un evento del tutto imprevedibile e inevitabile, come tale idoneo a interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso.
La Cassazione, pertanto, ha ritenuto corretto il ragionamento della Corte d’Appello laddove ha concluso, ascrivendo la responsabilità del fatto all’esclusiva colpa del conducente/assicurato in quanto la situazione dei luoghi non poteva dirsi pericolosa per chi percorreva la strada, poiché nella relativa corsia di pertinenza il tombino aperto era adeguatamente segnalato, mentre era pericolosa per chi percorreva quel tratto di strada contromano in violazione delle regole del Codice della strada e, in particolare, del divieto di sorpasso e velocità sostenuta.
La Sacra Corte, inoltre, ha ritenuto corretto che per il giudice di secondo grado non vi fosse alcuna esigenza di porre ulteriori cartelli di avviso della presenza del cantiere anche sul lato opposto della carreggiata di percorrenza dei veicoli, in quanto non vi sarebbe stata alcuna esigenza di segnalazione, prevalendo l’affidamento sulla diligenza degli utenti della strada in relazione al citato divieto di sorpasso, supportato dalla presenza della doppia striscia continua di mezzeria.

RIFERIMENTI NORMATIVI
In questa vicenda sono citati due articoli in particolare: il 2051 del Codice civile “Danno cagionato da cosa in custodia” e il 140 del Codice della strada “Principio informatore della circolazione”. Vediamo cosa dicono.

Art. 2051 c.c. “Danno cagionato da cosa in custodia”
Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.

Il custode è colui che ha il potere di vigilanza e di controllo sulla cosa e tale potere può essere di diritto ma anche solo di fatto. L’ipotesi contemplata dall’ art. 2051 cc sussiste quando la cosa produca da sola un danno. Diverso è il caso in cui il danno deriva dall’opera dall’uomo: in tale frangente si applica la generale previsione di cui all’art. 2043 c.c.

Art. 140 Cds “Principio informatore della circolazione”
“1. Gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione e in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale.

2. I singoli comportamenti, oltre quanto già previsto nei precedenti titoli, sono fissati dalle norme che seguono”.

A cura di Luigi De Simone
Comandante Polizia Locale di Caserta e collaboratore di PolMagazine

Riscossione coattiva: ruolo o ingiunzione?

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Nell’ambito delle attività di un Comando di Polizia Locale quotidianamente ci si misura sulla gestione dell’intero procedimento sanzionatorio, dalla sua genesi partendo dall’accertamento della violazione, passando per la notifica, fino all’incasso. Il rapporto tra accertamento e incasso determina che nel caso di mancato pagamento della sanzione vi sia la necessità di procedere, poi, con un’ulteriore fase che è quella della riscossione, il cui presupposto imprescindibile è il titolo esecutivo.

Il verbale di accertamento delle violazioni al Codice della strada, divenuto titolo esecutivo certo, liquido ed esigibile, ex art. 474 c.p.c., costituisce il presupposto necessario per avviare la fase esecutiva del procedimento sanzionatorio. Secondo l’art. 203 comma 3 del Codice della strada, “qualora nei termini previsti non sia stato proposto ricorso e non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta, il verbale, in deroga alle disposizioni di cui all’art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689, costituisce titolo esecutivo per una somma pari alla metà del massimo della sanzione amministrativa edittale e per le spese di procedimento”.

SE IL SANZIONATO NON PAGA SPONTANEAMENTE

Cosa accade, quindi, se per il verbale di contestazione per violazioni previste dal Codice della strada non sia avvenuto il pagamento in misura ridotta e non siano stati proposti i rimedi giurisdizionali o amministrativi previsti?

L’ente deve attivare la procedura della riscossione coattiva, l’ultima fase di un processo amministrativo che ha lo scopo di recuperare i crediti non pagati spontaneamente dal destinatario del verbale.

L’articolo 206 del Codice della strada indica che i ruoli per i titoli esecutivi sono predisposti dalle amministrazioni, destinatarie dei proventi, da cui dipende l’organo accertatore. L’ente impositore, pertanto, deve valutare gli strumenti attraverso i quali raggiungere l’obiettivo della disponibilità delle somme dovute mediante la riscossione, che sono rappresentati dal ruolo e dall’ingiunzione. I Comuni, quindi, effettuano la riscossione coattiva delle proprie entrate:

>> attraverso il ruolo, secondo le disposizioni del titolo II del Dpr 29 settembre 1973, n 602

>> sulla base dell’ingiunzione prevista dal testo unico di cui al Regio decreto 14 aprile 1910, n. 639

QUESTIONE DI RUOLO E INGIUNZIONE

La riscossione mediante ruolo fa riferimento alla definizione contenuta nell’articolo 10 del Dpr 602/1973 che individua il concessionario come “il soggetto cui è affidato in concessione il servizio di riscossione”. Nel caso in cui gli enti affidino l’attività di riscossione delle proprie entrate all’agente della riscossione, Agenzia delle entrate-Riscossione, si applicano le procedure previste dal Dpr 602/1973, potenziate dalle disposizioni dal comma 792 della L. 27 dicembre 2019, n. 160.

La procedura privilegiata di riscossione prevede, nell’ambito delle procedure esecutive:

  1. espropriazione forzata mediante pignoramento presso terzi,
  2. pignoramento mobiliare e pignoramento immobiliare, ai sensi dell’art. 49 del Dpr 602/1973,
  3. prevede, inoltre, l’applicazione di azioni cautelari e conservative, come il fermo amministrativo su auto, barche e moto, nonché le ipoteche.

La riscossione attraverso l’ingiunzione trae le sue origini dal Regio decreto 14 aprile 1910, n. 639. Si procede tramite affidamento del servizio a un soggetto di cui all’articolo 52, comma 5, lettera b), del D.Lgs. n. 446 del 1997, applicando per la fase di riscossione coattiva le disposizioni contenute nel titolo II del Dpr 29 settembre 1973, n. 602.

LA SCELTA GIUSTA

Appare chiaro che, sia per il ruolo che per l’ingiunzione, gli strumenti espropriativi di avvio del procedimento esecutivo corrispondono. La scelta, quindi, dovrebbe essere operata dall’ente sulla base dell’efficacia della propria attività di riscossione, andando a verificare una serie di parametri, tra i quali:

  • il rapporto tra carico affidato, decurtato di eventuali provvedimenti di sgravi, e il riscosso o, meglio, del non riscosso la cui percentuale, spesso, è tragicamente alta e questo incide in maniera importante sul Fcde;
  • la mancata definizione dell’inesigibilità delle partite creditorie che costringe gli enti a mantenere tra i residui attivi crediti di assai difficile esazione, con possibili conseguenze per gli equilibri di bilancio dell’ente impositore;
  • l’agilità della procedura;
  • la facilità di utilizzo delle procedure e dalla conseguente relativa semplicità di adozione delle stesse;
  • l’esigenza di procedere, in tempi rapidi, alla fase della riscossione;
  • l’esigenza di poter monitorare in modo semplice le diverse fasi della riscossione e i risultati conseguiti, come per esempio riguardo le procedure esecutive poste in essere e le relative tempistiche.

Non ci sono ragioni univoche che inducano a scegliere inequivocabilmente tra ruolo e ingiunzione. L’opzione tra l’una o l’altra modalità è lasciata alla discrezionalità dei singoli enti, sulla base di valutazioni inerenti elementi come l’organizzazione interna e la dimensione dell’ente. Ma è auspicabile procedere, come già anticipato, a un’attenta analisi di una serie di fattori, che inevitabilmente impattano in maniera negativa sull’efficacia della riscossione coattiva e valutare possibili correttivi da poter attuare per migliorare l’efficienza della nostra azione.

GUARDARSI INTORNO

In conclusione, per la gestione della riscossione coattiva non possiamo limitarci ad attuare un semplice adempimento, ad esempio con la consegna del ruolo, che seppur ineccepibile dal punto di vista formale, non si configura congruo per garantire l’efficacia della procedura in termini di percentuale di incasso, ma dobbiamo misurarci con il mercato e valutare le soluzioni in grado di orientare il nostro lavoro verso l’efficienza in modo da esplicitare, così, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

A cura di Francesca Onnis
Comandante di Polizia Locale di Monastir (SU) e collaboratrice di PolMagazine

Strade vicinali, in caso di sinistro…

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Qual è la definizione normativa esatta e chi risponde per la mancata manutenzione?

Un veicolo fa manovra su una strada vicinale. A causa della mancata illuminazione e del manto viscido, slitta sul lato sinistro e finisce con la ruota posteriore in un pozzetto privo di protezione al lato della strada. Il passeggero scende dalla vettura e precipita in un pozzetto lasciato aperto. Riporta, così, gravi danni alla persona. Un catena di eventi negativi. Il Tribunale che ha dovuto decidere, di chi ha ritenuto sia la responsabilità ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile?

Intendiamoci sulle parole

Per rispondere alla domanda, facciamo prima un po’ di chiarezza sulla terminologia.

Il Codice della strada definisce vicinale (o poderale o di bonifica) una strada privata a uso pubblico che si sviluppa al di fuori dei centri abitati. A dircelo è l’art. 3: “1. Ai fini delle presenti norme le denominazioni stradali e di traffico hanno i seguenti significati: (…) 52) Strada vicinale (o poderale o di bonifica): strada privata fuori dai centri abitati a uso pubblico”.

Gli elementi che devono coesistere perché una strada venga classificata come vicinale, dunque, sono la proprietà privata, l’uso pubblico e il tracciato stradale fuori dai centri abitati. Considerato che la legge n. 473/1925, che è ancora in vigore, annovera tra queste strade anche quelle non soggette a pubblico transito, possono riconoscersi due categorie di vicinali: private (o agrarie) e pubbliche.

Strada vicinale, quali caratteristiche

Il primo elemento di una strada vicinale, come detto, è la proprietà privata. In mancanza, l’arteria, se extraurbana, è classificabile come comunale, provinciale, regionale o statale, mentre se urbana, è sempre classificabile come comunale, a eccezione dei tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti, come previsto dall’articolo 2, comma 7, Codice della strada. Secondo elemento è l’uso pubblico.A questo proposito per ilTar Liguria, sez. Genova, 26 marzo1996, n. 93, “Per la qualificazione di una strada come vicinale necessita accertare che la strada, privata, è gravata da uso pubblico, ossia al servizio di una collettività indeterminata di cittadini”. Infine, terza caratteristica, il tracciato stradale deve essere fuori dai centri abitati.

Strada vicinale privata

Appartiene a persone giuridiche pubbliche, territoriali e non territoriali, a enti morali o a privati. Sono assenti eventuali diritti reali pubblici di uso gravanti sulla strada stessa. Si tratta di strade formate mediante cessione volontaria di terreno dei proprietari frontisti e per l’uso esclusivo dei fondi latistanti e di quelli in consecuzione. Il diritto di passaggio è esercitato dagli stessi proprietari iure domini e non iure servitutis, ovvero il diritto è riconosciuto ai soli proprietari che hanno concorso a formarle e a coloro che hanno acquisito questo diritto per usucapione o per altro titolo, mentre non è riconosciuto a tutti uti cives.

Strade vicinali pubbliche

Sono di proprietà privata e il passaggio è esercitatoda una collettività indeterminata di personeper soddisfare un interesse pubblico generale. Esiste, inoltre, un titolo valido a sorreggere l’affermazione di uso pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile.

Secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità e amministrativa, l’uso pubblico di una strada vicinale va escluso in tre casi:

  1. quando il passaggio sia esercitato nell’interesse di un gruppo limitato di soggetti, per specifiche esigenze di interesse limitato a tali soggetti;
  2. quando non sia possibile percorrere la strada con mezzi a motore;
  3. allorché la strada non sia idonea ad accedere a luoghi di pubblico interesse ovvero non consenta una possibilità di collegamento con questi o con la pubblica via.

Al contrario, costituiscono elementi per la qualificazione dell’uso pubblico della strada l’ubicazione in luoghi abitati e l’inclusione nella toponomastica comunale.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, l’inclusione da parte del Comune di una strada vicinale nell’elenco di quelle gravate da uso pubblico ha valore dichiarativo e non costitutivo. Pertanto, pone in essere solo una presunzione dell’uso pubblico.

Dal punto di vista della disciplina del Codice della strada, le strade vicinali sono assimilate a quelle comunali. Sono citate anche nella disposizione dell’articolo 14 che, al comma 4, attribuisce i poteri dell’ente proprietario nei confronti del Comune: “4. Per le strade vicinali di cui all’art. 2, comma 7, i poteri dell’ente proprietario previsti dal presente codice sono esercitati dal Comune”.

Intervento della Suprema Corte
E veniamo, dunque, alla domanda iniziale: chi è responsabile della mancata manutenzione della strada vicinale in caso di incidente ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile, secondo cui “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito?”

Di particolare importanza, in materia di strade vicinali private, è l’intervento della Corte di Cassazione civile. Con l’ordinanza del 29 marzo 2023, n. 8879, ha statuito il principio secondo cui “In relazione alle strade vicinali sussiste la responsabilità del custode a prescindere dal fatto che siano di proprietà privata, purché esse siano inserite tra le strade adibite a pubblico transito”.

La Corte precisa che, in relazione alle strade vicinali, sussiste la responsabilità per custodia del Comune a prescindere dal fatto che esse siano di proprietà privata, purché siano inserite – come in questo caso – tra le strade adibite a pubblico transito.

Va premesso, infatti, che ai fini della definizione stessa di “strada”, è rilevante, ai sensi dell’articolo 2, comma primo, del nuovo Codice della strada, la destinazione di una determinata superficie a uso pubblico e non la titolarità pubblica o privata della proprietà. È, pertanto, l’uso pubblico a giustificare, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, la soggezione delle aree alle norme del Codice della strada e la legittimazione passiva del Comune, fondata sugli obblighi di custodia correlati al controllo del territorio e alla tutela della sicurezza ed incolumità dei fruitori delle strade di uso pubblico, in relazione agli eventuali danni riportati dagli utenti della strada.

Ciò è confermato dall’ultimo inciso del comma sesto dell’articolo 2, ai sensi del quale anche le strade “vicinali” sono assimilate alle strade comunali, nonostante la vicinale sia per definizione (articolo 3, comma primo, n. 52, stesso Codice) di proprietà privata, anche in caso di destinazione a uso pubblico (vedi Cassazione n. 17350 del 2008; nello stesso senso, vedi Cassazione, n. 14367 del 2018), quella del Consorzio dei comproprietari dei fondi viciniori, fondata sul concorrente obbligo di custodia esistente in capo ai proprietari del bene.

Vedi anche Cassazione n. 3216 del 2017: “In tema di responsabilità da negligente manutenzione delle strade è in colpa la Pubblica Amministrazione che non provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le pubbliche vie, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti delle strade, né ad inibirne l’uso generalizzato; ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d’una strada, la natura privata di questa non è, di per sé, sufficiente ad escludere la responsabilità dell’amministrazione comunale ove, per la destinazione dell’area e per le sue condizioni oggettive, la stessa era tenuta alla sua manutenzione”.

A cura di Marco Massavelli
Comandante Polizia Locale Susa (TO) e collaboratore di PolMagazine

La Polizia Locale lo rintraccia e lo denuncia per danneggiamento

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Cerca di introdursi in un negozio, ma una cittadina lo riprende con il cellulare e invia le immagini alla Polizia Locale di Vicenza, che lo riconosce e lo denuncia per danneggiamento.

Il fatto risale ad alcuni giorni fa ed è stato reso noto oggi in un comunicato stampa pubblicato sul sito del Comune.

Al mattino molto presto, una cittadina ha notato e subito ripreso con il cellulare un giovane che, dopo essere sceso da una bicicletta, ha forzato la serranda di un negozio. Accortosi di essere filmato, l’uomo ha desistito dal tentativo di entrare nel negozio ed è fuggito in bicicletta.

La testimone ha consegnato il video alla Polizia Locale, che ha immediatamente riconosciuto la persona, già nota per episodi di furto.

Dopo qualche giorno gli agenti hanno rintracciato il giovane, lo hanno condotto in comando, quindi lo hanno identificato e denunciato per il reato di danneggiamento.

Quando c’è l’obbligo di assicurazione?

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Con una specifica nota il ministero delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili ha chiarito che è obbligatoria la copertura assicurativa per qualunque veicolo a motore in circolazione su una strada pubblica, ivi compreso quando è in sosta. Pertanto si chiede se la sosta di un veicolo avviene su strada pubblica (anche gli spazi riservati alla sosta dei veicoli al servizio delle persone diversamente abili fanno parte della strada pubblica) l’obbligo di assicurazione rimane? Inoltre, se il soggetto interessato pone invece il veicolo in uno spazio privato o comunque fuori dalla strada come sopra definita, è esentato da tale obbligo?

L’articolo 193 del Codice della Strada, al comma 1, recita “I veicoli a motore senza guida di rotaie, compreso i filoveicoli e i rimorchi, non possono essere posti in circolazione sulla strada senza la copertura assicurativa a norma delle vigenti disposizioni di legge sulla responsabilità civile verso terzi”. L’articolo 2, comma 1, dello stesso codice prescrive “Ai fini dell’applicazione delle norme del presente codice si definisce strada l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali”. Infine, l’articolo 3, comma 1, n. 9 dà la definizione di circolazione: “Circolazione è il movimento, la fermata e la sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulla strada”.
Dalla lettura coordinata delle norme emerge, a nostro parere, che è obbligatoria la copertura assicurativa per qualunque veicolo a motore in circolazione su una strada pubblica, ivi compreso quando è in sosta. Pertanto, se la sosta di un veicolo avviene su strada pubblica (anche gli spazi riservati alla sosta dei veicoli al servizio delle persone diversamente abili fanno parte della strada pubblica) l’obbligo di assicurazione rimane.
Lo spazio riservato per la sosta alle persone diversamente abili non può essere equiparato a uno spazio privato, poiché può essere utilizzato anche da soggetti diversi, quando non è occupato, per esempio per una breve fermata nella quale il conducente è sempre presente o per il passaggio di un pedone. Se il soggetto interessato pone, invece, il veicolo in uno spazio privato o comunque fuori dalla strada come sopra definita è esentato da tale obbligo.